Purtroppo si investe sempre poco sulla scuola

La scuola italiana ha visto cambiar ministro, ma ancora troppo poco d’altro. Sembra che il problema più grande siano le alcune migliaia di persone che conseguiranno i requisiti pensionistici tra il 1º gennaio ed il 31 agosto 2012 e non entro il 31 dicembre 2011 e, per questo, non potranno andare in pensione, seppur la finestra d’uscita per la scuola è al 1º settembre e non al 1º gennaio, creando così palese ingiustizia, all’interno dello stesso anno (scolastico) di lavoro. Allora la situazione economica italiana è veramente gravissima, se non si riescono a trovare le risorse neanche per poter pensionare tali docenti che, tra l’altro, chissà con che spirito continueranno a restare forzatamente in classe. Oppure la recente notizia dell’assunzione di 10.000 precari prima annunciata e poi ritirata dalla sera al mattino.
Con queste premesse, assunzioni ed investimenti futuri saranno sempre più difficili mentre, al di là di proclami o buone intenzioni, il decremento di risorse per la scuola continua. Basti pensare, ad esempio, alla progressiva messa a regime della riduzione delle ore di docenza settimanali assegnate alle classi a tempo normale della scuola primaria, da 30 a 27, coinvolgente per il prossimo anno scolastico anche le classi quarte (oltre le prime, seconde e terze) e fra due anni anche le quinte (e ciò a prescindere dalle richieste delle famiglie di tempi-scuola anche maggiori, salvo abbiano ancora il tempo-pieno da 40 ore).
In questo caso, come per molti altri, non vi è discontinuità tra il Governo tecnico di Monti ed il precedente. Se il vertice pare impotente o senza risorse, alla base è altresì difficile una visione d’insieme. Basti pensare, anche qui, alle divergenze tra Comuni per il dimensionamento scolastico, anche quello pinerolese, seppur è utopistico pensare ad un Comune che rinunci volontariamente a mantenere la presenza in loco di una presidenza, che magari in certi paesi rimarrebbe pure l’unico ufficio statale insieme alla Stazione Cc, con comodità per l’utenza e posti di lavoro aggiuntivi. Ma non basta mirare ai 1.000 allievi (con deroghe montane) per mantenere l’autonomia scolastica se non si tiene conto della continuità didattica, della storia pregressa e delle proiezioni demografiche. In questo senso, sono da emulare i Comuni che investono per la scuola, ovvero per i figli presenti e futuri di tutti, erogando finanziamenti non solo minimi ed occupandosi di edilizia scolastica.
Se invece guardassimo fuori dal cortile di casa nostra, vedremmo che la Corea del Sud costituisce un modello possibile di uscita dalla crisi economica anche grazie a significativi interventi di spesa pubblica ed all’efficienza del sistema scolastico. Questo porta ben il 97 per cento dei giovani al diploma di scuola superiore ed i 2/3 dei non ancora trentenni alla laurea o ad altri titoli analoghi.
Qual è allora il segreto di quel sistema educativo? Non tanto la pur ingente spesa per l’istruzione (oltre 7 per cento del Pil, Italia 4,6 per cento), quando l’elevata considerazione sociale di cui gode l’istruzione come valore fondamentale della comunità. Si studia molto perché c’è la pressione convergente dei docenti e dei genitori ma c’è consapevolezza, in tutte le classi sociali, che l’impegno viene sempre premiato e le competizioni si svolgono su basi meritocratiche e nella massima trasparenza. Un modello questo, che sarebbe ottimo non solo per la scuola ma anche per la società italiana, ancora troppo sospeso tra l’anima latina e quella levantina.
Invece la crisi economica sta operando una “pressione selettiva” su discipline, orari, organici e risorse della scuola, ma anche sulle attenzioni ad essa dedicate dai suoi operatori e dall’utenza. È vero che, come insegnano i biologi evoluzionisti, le “pressioni selettive” possono far esplodere le novità e la creatività, ma il pericolo è che possano far esplodere, e basta, la nostra scuola.
Siamo sicuri che è proprio questo ciò che vogliamo per il presente e per il futuro, per noi, per i nostri figli ed i nostri allievi?�

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Paola Molino