Un Paese rimasto senza una guida

Il Presidente Napolitano ha ripetuto, con toni accorati, l’appello alla responsabilità, necessaria per fronteggiare una crisi sempre più aggressiva. Ma le vicende degli ultimi giorni hanno scavato un solco sempre più profondo tra la maggioranza di Governo e l’opposizione parlamentare. Bersani sostiene che l’Italia si può salvare solo se Berlusconi lascia il Governo; e Berlusconi risponde: la sinistra è fatta di delinquenti che tramano contro gli interessi del Paese.
Intanto in Europa cresce la diffidenza verso un Governo che in un mese ha cambiato tre volte un decreto legge in attesa di conversione, e la quarta volta affida il risanamento dei conti pubblici all’incerto esito di una strategia anti-evasione.
Quasi tutte le organizzazioni economiche e sociali hanno motivi per criticare aspramente una manovra che ritengono inefficace ed ingiusta, e per attendersi dal dibattito parlamentare qualche radicale emendamento: i sindacati si sono mobilitati a difesa delle pensioni e del lavoro. Gli amministratori pubblici, anche quelli che fanno riferimento alla maggioranza, hanno condannato i tagli al welfare ed alle risorse dei Comuni e delle Regioni, poiché scaricano sulle fasce sociali più deboli il costo della manovra, anche in questo modo mettendo le mani nelle tasche degli italiani; la stessa Confindustria ha condiviso la principale critica della Banca d’Italia ad un decreto che ignora lo stretto rapporto tra una politica di crescita ed una politica che si proponga seriamente di ridurre il debito pubblico.
Berlusconi ha reagito a queste critiche accusando i Governi del passato di avergli lasciato in eredità un debito pubblico tra i più alti del mondo occidentale. In realtà dalla svolta storica del 1992 sono passati quasi vent’anni; De Gasperi, di cui Berlusconi si considera erede, in meno di dieci anni aveva portato un Paese sconvolto dall'eredità della disfatta fascista, alla ricostruzione ed al miracolo economico. D’altra parte, con l’avvio delle privatizzazioni e l’ingresso dell’Italia nell’euro (che ha ridotto sensibilmente il costo del debito), l’incidenza del debito pubblico sul Pil era scesa – per merito di Prodi – a 103 punti, mentre negli ultimi anni è risalita a 120 punti. Sono evidenti le responsabilità della destra per il deficit e per la caduta della competitività.
Dopo il tramonto della Prima Repubblica Pdl e Lega avevano conquistato un vasto consenso popolare promettendo di «ridurre la pressione fiscale» e di realizzare il "federalismo". Ma la crisi finanziaria sta costringendo Berlusconi ad aumentare le tasse e Bossi ad affondare il "federalismo fiscale". Siamo al tramonto di un fase politica che aveva in Berlusconi ed in Bossi i suoi riferimenti. Il Paese è rimasto senza leadership, mentre il mercato continua a dubitare dell'affidabilità del Governo e la Banca d’Italia teme gli effetti "depressivi" di una manovra che ignora il problema della crescita dell’economia. In questa situazione la maggior parte delle polemiche si è concentrata sulle riforme della politica, che sono necessarie ed urgenti, ma che andrebbero collocate in un orizzonte istituzionale, non in un contesto caratterizzato dall’emergenza economica e finanziaria.
Questa è anche una contraddizione dell’opposizione. La crisi globale è stata colta come "pretesto" per imporre riforme della politica troppe volte rinviate, che sono comunque marginali dal punto di vista finanziario; e questo alimenta l’anti-politica e mette a rischio la democrazia.
La questione più importante, specie per chi ritiene che i nodi della politica si possono tagliare con una rinascita morale da affidare ad una nuova generazione di cattolici e di laici attenti ai valori umani, riguarda le radici più profonde della crisi. Se la crisi esplosa nel 2007 riguarda il capitalismo finanziario che domina l’economia dell’Occidente, non si potrà risolvere scaricandone il costo sul welfare, sulle famiglie e sul mondo del lavoro.�

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Paola Molino