L'università che deve cambiare

Una riforma necessaria

Che fine farà la “Riforma Gelmini”? Al momento in cui stiamo scrivendo, la risposta non è possibile. La proposta di legge è troppo legata alla situazione politica generale. Perciò è forse tempo per riflettere su alcune questioni di fondo circa la irrinunciabile e profonda trasformazione dell’università italiana. Da dove partire per affrontare questioni tanto complesse e difficili?
Il rischio è di ripetere luoghi comuni e “parole d’ordine” che gli organi di informazione di massa ripropongono, spesso non aiutando a fare chiarezza e capire. Non poche sono le imprecisioni di linguaggio e le confusioni su strutture e personale dell’università. Un unico esempio: la parola ricercatori ha un preciso significato istituzionale e riguarda il terzo livello del personale docente. I ricercatori non sono precari, bensì assunti a tempo indeterminato, talora incaricati di un insegnamento. Mentre svolgono l’insegnamento, sono qualificati con la dicitura onorifica di professori aggregati.
Nel linguaggio giornalistico e comune talvolta con lo stesso termine di ricercatori vengono indicati altri tipi di persone "legate" all’università da contratti a tempo (assegnisti, borsisti, docenti a contratto), che rappresentano parte del multiforme universo dei precari. Ai margini di tale universo permangono, inoltre, quanti, terminato il periodo di assegno o di borsa, non riescono ad accedere al ruolo di ricercatori o di professori, oltre che quanti, avendo conseguito il dottorato di ricerca, ambiscono a "vincere" un assegno o una borsa.
Queste prime informazioni immettono in un ambito di complicatissimi problemi. Quali sono e quali dovrebbero essere la collocazione e le responsabilità degli appartenenti al personale docente (professori di prima e seconda fascia, ricercatori)? Quali sono e quali dovrebbero essere i rapporti e le gerarchie tra le fasce docenti? Qual è e quale dovrebbe essere il periodo di precariato prima del definitivo ingresso negli organici docenti? Chi e come decide o dovrebbe decidere sulla idoneità dei singoli ad accedere a una delle tre fasce?
Si potrebbe continuare a lungo con le domande senza trovare nel nostro ordinamento risposte normative che non lascino spazio a situazioni e comportamenti intollerabili (del resto, diffuse anche in altri settori della società italiana): baroni (e non) che curano i propri affari personali, assai poco occupandosi di studenti e di attività scientifiche, didattiche e istituzionali; clientelismo e “nepotismo”, e così via.
Allora, si potrebbe ricorrere ai modelli seguiti nei Paesi di più spiccata tradizione universitaria per adottare, magari, il modello migliore. Ma quando apriamo gli occhi sul mondo, ci accorgiamo che ci imbattiamo in questioni economiche. Le università migliori nel mondo sono quelle che godono di maggiori finanziamenti, pubblici e privati. Esse possono scegliere i docenti migliori perché li pagano di più, offrendo loro condizioni ottimali per la ricerca, pretendendo da loro una presenza attiva e fattiva. Per altro, sono quelle stesse università che richiedono i più alti livelli di tasse, che attuano una più rigorosa selezione, che consentono di acquisire le più ricche borse di studio. Non sono certamente università di massa.
La meritocrazia non è pertanto un’idea astratta, ma è un elemento di una competizione a livello internazionale che prima di tutto si basa sulla disponibilità di risorse economiche. Che cosa possono fare le università italiane quando devono basarsi, per lo più, sull’esiguo finanziamento statale e sulle entrate derivanti dalle tasse pagate dagli studenti? Fra di loro non esiste competizione alcuna, tutte vincolate dal “valore legale” del titolo di studio, che le parifica e le appiattisce verso il basso: anche se differenze significative esistono tra facoltà e dipartimenti “scientifici” che riescono ad attrarre finanziamenti privati, organizzando progetti di ricerca con ricadute e rientri economici, e facoltà e dipartimenti che si dedicano alla “trasmissione del sapere” e alla “ricerca di base” che non hanno immediata applicazione nel mondo produttivo, di qualsiasi livello esso sia.
Ne derivano questioni circa il servizio che l’università dovrebbe offrire alla società italiana. Ne derivano problemi immensi connessi con le professionalità che dovrebbero trovare la loro formazione strutturale nelle istituzioni universitarie e che nell’università italiana conoscono sorprendenti sperequazioni: quanti sono, per esempio, i chimici o i biologi annualmente laureati rispetto al numero di psicologi o di esperti in beni culturali o di “dottori” in scienze della comunicazione?
Un progetto di necessaria e urgente riforma dell’università italiana avrebbe dovuto o dovrebbe rispondere a questi (e a tanti altri) aspetti, magari partendo dalla generale consultazione di tutte le componenti interne ed esterne all’università stessa. Le decisioni parlamentari dovrebbero giungere soltanto al termine di un impegno collettivo, per quanto contrastato e faticoso, quale momento finale di mediazione e di sintesi: con lo sguardo preparato e fiducioso verso un futuro non casuale.
Il consapevole timore è che ciò non sia avvenuto né avverrà. Fino a quando?�

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Paola Molino