L'articolo 18: non si risolve il problema del rilancio

Non basta una legge

Il disegno di legge presentato dal Governo per la riforma del mercato del lavoro sta provocando prevedibili scontri con le organizzazioni sindacali e forti discussioni fra le varie forze politiche. Le opinioni su questo argomento sono molto diversificate, ma si concentrano prevalentemente sul famoso articolo 18. Le modifiche proposte sono viste in modo molto diverso dagli opposti fronti; da una parte come libertà di licenziare, dall'altra come la liberazione da un'imposizione assurda, punitiva per le imprese. 
Mi sembra che il provvedimento sul costo del lavoro contenga molte altre norme considerate positive dalla maggior parte dei commentatori di entrambe le parti. Volendo però concentrare l'attenzione sull'articolo 18 occorre, a mio avviso, separare gli effetti che potrà produrre nel lungo termine da quello che potrebbe accadere nei mesi immediatamente successivi alla sua approvazione.
Nel primo caso le modifiche che si vogliono introdurre, sulle quali la discussione è ancora aperta, tendono a correggere una situazione troppo squilibrata che non tiene conto del fatto che si deve assicurare alle aziende la possibilità di vivere in un mercato internazionale particolarmente competitivo ed in continua evoluzione. Naturalmente il discorso non si può fare partendo dal presupposto che l'imprenditore intenda solo agire per motivi strettamente egoistici o addirittura persecutori. Questi atteggiamenti non possono che essere condannati.
Tuttavia la difesa ad oltranza di situazioni economiche insostenibili può portare, in qualche caso, a conseguenze irreparabili per l'impresa. Talvolta è più opportuno accettare una riduzione di alcuni posti di lavoro se questo evita che, l'acuirsi di una crisi aziendale, porti al fallimento con conseguente perdita di tutti i posti di lavoro. È quindi ragionevole pensare che nel lungo termine la riforma possa favorire la riduzione del lavoro nero ed essere un elemento di stabilizzazione del lavoro precario.
Nel breve termine la situazione è più complessa perché l'andamento dell'economia è molto incerto con segni positivi e negativi che si susseguono. Le industrie, senza una chiara tendenza al miglioramento non sono indotte ad investire, né a produrre oltre lo stretto necessario, con il rischio di aumentare le giacenze di magazzino in un momento in cui il credito bancario è fortemente razionato oltre che costoso per le piccole e medie aziende. Conseguenza: poche assunzioni, principalmente a tempo determinato, per non correre maggiori rischi. Nel caso di ulteriore aggravamento della crisi si potrebbero registrare altri licenziamenti per motivi economici, resi più facili anche se più onerosi dalla nuova legge. Il costo a carico dello Stato aumenterebbe per il ricorso agli ammortizzatori sociali ma, quello che più conta, si creerebbe un'atmosfera di maggior timore e incertezza nelle persone e nelle famiglie.
Qualora invece si cominciasse a intravedere una ripresa economica, ad avvenuta approvazione della legge, presumibilmente dopo il periodo estivo, le imprese in generale e le industrie in particolare si dimostrerebbero più favorevoli ad aumentare il numero dei dipendenti sia per la possibilità offerta dall'assunzione a termine, vista come passaggio verso il contratto a tempo indeterminato, sia per la possibilità di utilizzo dell'apprendistato.
È evidente che questa legge da sola non può risolvere il problema del rilancio. Occorre che siano ricercate ed utilizzate tutte le opportunità di crescita, con interventi più rapidi ed incisivi. Credo che finora non sia stato fatto tutto il possibile. Troppe iniziative, potenzialmente creatrici di posti di lavoro, temporaneo e definitivo, sono state bloccate anche per anni, talvolta con conseguente abbandono, per la lentezza della burocrazia o per gli eccessi di democrazia.�

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Paola Molino