La Chiesa italiana e la “legge sul fine vita”

«La vita umana è sempre, in ogni caso, un bene inviolabile e indisponibile» e «la dignità irriducibile della persona, non viene meno quali che siano le contingenze e le menomazioni o le infermità che possono colpire nel corso di un’esistenza».
Queste parole del card. Bagnasco sono in perfetta sintonia col Catechismo della Chiesa cattolica che, al sottotitolo "Eutanasia", chiede rispetto particolare e sostegno per ammalati e handicappati; dichiara moralmente inaccettabile "qualunque ne siano i motivi e i mezzi" l’eutanasia diretta «che consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte». Afferma poi che «un’azione o un’omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un’uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore».
Diversa è la posizione della Chiesa riguardo all’accanimento terapeutico. Il Catechismo riconosce che «può essere legittima l’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate» precisa che in tal caso si «ha la rinuncia all’accanimento terapeutico"»; afferma che in tali circostanze «non si vuole procurare la morte: si accetta di non poterla impedire».
A chi spetta una decisione? «Al paziente se ne ha la competenza e la capacità o, altrimenti, a coloro che ne hanno legalmente il diritto rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente». Ancora il Catechismo afferma che «anche se la morte è considerata imminente, le cure che d’ordinario sono dovute a una persona ammalata, non possono essere legittimamente interrotte».
La Conferenza episcopale italiana non soltanto ha riaffermato ciò, ha anche detto che «l’alimentazione e l’idratazione sono trattamenti di sostegno vitale, qualitativamente diversi dalle terapie sanitarie». Ne deriva che come non si possono interrompere le cure ordinarie, tanto più non si possono mettere in discussione alimentazione e idratazione.
Nel nostro Paese sono state avanzate diverse proposte di legge, da quelle sul "fine vita" a quelle sul "testamento biologico" a quelle che vorrebbero la legalizzazione dell’eutanasia. Si ha, da parte dei vescovi, un’apertura soltanto alle prime e precisamente «a una legge sul fine vita che riconoscendo valore legale a dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita, dia nello stesso tempo tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato, e sul rapporto fiduciario tra lo stesso e il medico, cui è riconosciuto il compito di vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e coscienza». Non si vuole legittimare «la nozione di testamento biologico» perché «espressione di una cultura dell’autodeterminazione».
Mi pare di poter immaginare che una dichiarazione sul fine vita, per essere in sintonia col Magistero, potrà esprimere la volontà di non essere sottoposti ad accanimento terapeutico, chiedere di non interrompere le cure ordinarie e l’eventuale somministrazione di analgesici. «L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche col rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile» (Catechismo 2779).
La Conferenza episcopale ha più volte espresso il timore che in maniera surrettizia s’introducano nella legislazione elementi che favoriscano l’eutanasia e ha dichiarato «quel che in ultima istanza chiede ogni coscienza illuminata… è che non vengano in alcun modo legittimate o favorite forme mascherate di eutanasia, in particolare di abbandono terapeutico, e sia invece esaltato quel favor vitae che a partire dalla Costituzione contraddistingue l’ordinamento italiano».�

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Paola Molino