Tornare a produrre in Italia

Il caso Fiat

La controversa questione del riposizionamento della produzione della Panda dalla Polonia allo stabilimento di Pomigliano pone un interrogativo importante all'industria italiana. Si tratta di comprendere se questo ritorno di una lavorazione di grande serie in un Paese ad economia evoluta, come l'Italia, da un Paese in via di sviluppo, è destinato a rimanere un caso isolato, oppure rappresenta un'inversione di tendenza.
L'assunto è sempre stato "i prodotti ad alta intensità di lavoro sono fortemente condizionati dal costo della mano d'opera per cui al fine di garantire la competitività occorre insediare la produzione ove tale costo è più basso". Da questo ne è derivato il trasferimento di stabilimenti produttivi in India, Cina, Brasile, Corea, ecc., e nei Paesi dell'Est europeo.
L'esperienza ha evidenziato come lentamente le condizioni economiche dei Paesi sottosviluppati migliorano, le assicurazioni sociali e le garanzie tendono ad uniformarsi a quelle delle economie avanzate. I salari aumentano come accaduto nei mesi scorsi in Cina, dove in un solo colpo le retribuzioni sono balzate del 20-30 per cento, per cui i costi lievitano ed i prezzi dei prodotti perdono di competitività. Questa è una prospettiva di lungo periodo che può durare anche più di un decennio. È quello che è avvenuto in Italia nel Dopo guerra, è quello che sta avvenendo negli Stati asiatici.
Nell'Est europeo invece il tempo di adeguamento si riduce a causa dell'entrata di questi popoli nell'Unione europea e dell'adozione dell'euro. Può darsi che la Fiat abbia  valutato che, nel giro di quattro-cinque anni, la differenza tra il costo del lavoro in Polonia ed in Italia si ridurrà sensibilmente. Risulterebbe quindi conveniente utilizzare stabilimenti esistenti in Italia, realizzando un'economia di investimenti, a condizione che si adottino regole tali da assicurare flessibilità di lavoro, sicurezza e cooperazione, paragonabili a quelle esistenti in altri Paesi.
In una prospettiva di breve termine le differenze esistenti nel costo del lavoro, così elevate, rimangono fondamentali. Tuttavia non sono l'unico elemento da considerare. La competitività di un prodotto sul mercato si realizza non solo perché il prezzo è più basso, ma anche con la novità, la qualità, la durata, e la garanzia di funzionamento. Tutto questo si ottiene se il produttore è in grado di mettere insieme una progettazione di prodotto all'avanguardia, una tecnologia di produzione sempre aggiornata, un'organizzazione di prim'ordine, e lavorando in un ambiente favorevole allo sviluppo industriale.
La robotica, l'utilizzo dell'elettronica sui macchinari, le applicazioni dell'informatica costituiscono un patrimonio di conoscenze dell'Occidente industrializzato, che possono fare la differenza. È vero che oggi la diffusione delle conoscenze è molto veloce, tuttavia questa non deriva soltanto da ingegneri, professori, ricercatori, ma anche dall'esperienza degli addetti alla produzione che sono in grado di introdurre miglioramenti ai prodotti, ai cicli di lavorazione ed ai macchinari, che raramente sono brevettati, ma che spesso sono fondamentali per la competitività.
L'ambiente favorevole all'industria non è soltanto strade, energia, acqua ma anche servizi, manutenzioni, parti di ricambio, che costituiscono quel tessuto sub-industriale, nei casi più specializzati "il distretto", senza il quale le grandi produzioni si inceppano.
L'organizzazione del lavoro ha bisogno di flessibilità, per sfruttare al meglio gli impianti, per rispondere con rapidità, qualità e precisione alla richiesta del mercato, così come sul costo del lavoro in Italia gravano pesi eccessivi di carattere fiscale e contributivo, a carico dei lavoratori e dei datori di lavoro. Qualcosa si può e si deve fare.
Un imprenditore, nel corso di un'intervista pubblicata su un quotidiano, confermava la possibilità di tornare a produrre in Italia con queste parole: «La rincorsa solo sul prezzo è finita». Buon segno.

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Paola Molino